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Sei mesi bastano per non amare più il proprio lavoro

C’è una specie di sortilegio che ci lega ad un amore, un luogo e un lavoro. Una malia che ci permette di affrontare ogni cosa. Un sortilegio che però, se lacerato, provocato o ferito, può venire meno e farci sprofondare all’improvviso nell’indifferenza e nelle noia per quelle stesse cose che prima ci appassionavano. Quella malia, o dono supremo, dura un tempo sempre difficile da predire.

Ma qualcuno ci ha provato. Secondo gli esperti della Sirota Survey Intelligence – che hanno realizzato un’indagine su più di un milione e 200 mila dipendenti di 52 tra le più importanti imprese statunitensi – quando si tratta di un impiego sono sufficienti sei mesi a far sì che l’idillio abbia termine.

Meno di duecento giorni. Quasi un niente per la vita di uomo e di una donna.
Se quando si tratta di un amore lo svilimento è spesso da imputare agli errori di ciascun partner, nel caso della “passione lavorativa” è all’incapacità dei manager che si deve imputare la principale colpa. Sono i responsabili della aziende a dissipare buona parte delle energie di entusiasmo di quei lavoratori che, nei primi tempi, portano con sé l’entusiasmo del fare.

All’inizio, nei primi giorni di lavoro – dicono i ricercatori – la passione è sempre molto elevata. Ciascuno dei nuovi impiegati punta molto sul nuovo impiego. Purtroppo, però, il morale declina rapidamente. Dopo solo sei mesi appunto. E continua a peggiorare negli anni.

Allora eccoli i manager. Non così capaci di motivare nella migliore maniera i propri collaboratori, incapaci di distribuire equamente riconoscimenti adeguati. A riportare l’indagine è anche l’autorevole rivista “Harvard Management Update” secondo cui gli impiegati si troverebbero durante l’attività di fronte a un eccessivo numero di approvazioni da ottenere per ciascun atto da compiere. Inoltre, quasi sempre, le aziende non offrono una formazione sufficiente. Senza contare che ciascuno è inserito in un’inefficace sistema di trasmissione delle informazioni e che poche volte i responsabili sono in grado di delegare parte del proprio potere.

La gran parte di chi lavora insomma ha (o ha avuto) una gran voglia di lavorare ma si trova a che fare con una realtà che rende le cose troppo difficili. A pochi viene permesso di oltrepassare i limiti delle proprie mansioni. Secondo gli autori della ricerca il management concentra la gran parte delle proprie risorse su una quota troppo ristretta di persone tralasciando tutto il resto. Quando queste persone non vengono seguite personalmente gli si impone spesso una serie di pressanti regole che finiscono per rendere per lo più oppressivo il posto di lavoro.

Se si guarda all’Italia, secondo la ricerca realizzata da Carrieri, Damiano e Ugolini pubblicata nel libro “Il lavoro che cambia” (Ediesse), per la gran parte i lavoratori italiani sono soddisfatti anche se ci sono numerosi fattori che rendono difficile il lavoro quotidiano: stress, burocrazia interna, poche relazioni con i superiori e ripetitività di mansioni.

Tra gli elementi che più di tutti portano ad un certo “distacco” dal lavoro, un inadeguato sistema di retribuzione e premi e l’impossibilità di intervenire nell’organizzazione del lavoro. Senza contare che gli italiani sono, tra gli europei, quelli che meno soddisfatti degli orari di lavoro in rapporto agli impegni fuori dall’ufficio.