Leadership ed empatia: cosa ci insegnano le neuroscienze

Leadership ed empatia: cosa ci insegnano le neuroscienze
17 Giugno 2025
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Leadership ed empatia: cosa ci insegnano le neuroscienze

Ogni martedì mattina l’appuntamento con “La Tigre” ci accompagna alla scoperta di aspetti cruciali per il cambiamento nelle organizzazioni. Il primo incontro di giugno ha avuto un ospite d’eccezione: Alessio Venanti, professore di neuroscienze cognitive, che ha condiviso riflessioni e scoperte sul tema della leadership, a partire da un punto di vista scientifico e profondamente umano.

Il leader empatico: un modello possibile (e scientificamente fondato)

Fin dalle prime battute, Venanti racconta come il suo approccio alla leadership sia nato in un ambiente accademico, gerarchico ma profondamente collaborativo. Alla base della sua visione, l’empatia: quella capacità di comprendere, ascoltare e valorizzare l’altro. Non un talento innato, ma una competenza sviluppata attraverso l’esperienza, l’osservazione di buoni maestri e il lavoro di ricerca scientifica.

Il punto di partenza? Lo studio delle basi neurali dell’empatia: “Ho iniziato studiando come il cervello si attiva quando proviamo empatia. È lì che ho scoperto la potenza di alcuni meccanismi condivisi: se vedo una persona provare dolore, nel mio cervello si attivano aree simili a quelle che si attiverebbero se lo stessi provando io.”

Neuroni specchio e connessione umana

La scoperta dei neuroni specchio ha segnato un punto di svolta. Questi neuroni si attivano non solo quando compiamo un’azione, ma anche quando osserviamo qualcuno compierla. E lo stesso avviene con le emozioni: osservare qualcuno soffrire o gioire può attivare nel nostro cervello risposte simili, rendendo concreta l’espressione “sento il tuo dolore”.

Questa “risonanza” non è una metafora poetica: è un vantaggio evolutivo che ci ha permesso di cooperare, costruire legami, sopravvivere. Ed è una risorsa preziosa, oggi più che mai.

Leadership e perdita di empatia: una questione di ruolo?

Un aspetto sorprendente emerso durante l’incontro riguarda il rischio “strutturale” della leadership: più una persona resta a lungo in un ruolo di comando, più tende a perdere empatia. Una dinamica osservata anche nei primati: i maschi alfa sono meno responsivi ai segnali degli altri.

Secondo Venanti, questo accade perché chi esercita potere non ha più bisogno di considerare costantemente il punto di vista altrui: le sue decisioni vengono comunque eseguite. Un ulteriore motivo per cui l’empatia va allenata, soprattutto da chi guida.

Empatia: non solo una dote, ma una strategia

Fortunatamente, le neuroscienze offrono strumenti concreti per sviluppare empatia. Anche se gli aspetti più automatici sono difficili da modificare (poiché frutto di esperienze precoci), possiamo agire sul piano cognitivo:

  • Assumere la prospettiva dell’altro: decidere volontariamente di mettersi nei suoi panni.
  • Lavorare sul corpo: la sincronizzazione posturale e del respiro può favorire una connessione empatica più profonda.

Non si tratta di “scimmiottare” l’altro, ma di attivare una sintonia autentica che migliora la comunicazione, la collaborazione e il benessere del gruppo. Alcuni studi, ad esempio, dimostrano che i camerieri che imitano sottilmente i clienti ricevono più mance. In azienda, un leader che mostra attenzione sincera crea un ambiente più motivante e connesso.

La gestione dello stress: il corpo come alleato del cervello

Un altro campo in cui le neuroscienze offrono spunti preziosi per la leadership è la regolazione dello stress. Venanti spiega il ruolo dell’amigdala, struttura antica del cervello che segnala minacce e innesca risposte di attacco o fuga. Questo sistema, se non modulato, può compromettere la lucidità e la qualità delle decisioni.

E qui entra in gioco il corpo: pratiche come il controllo del respiro o la focalizzazione sull’interiorità corporea (body scan, yoga, meditazione) attivano la corteccia prefrontale, che ha la funzione di modulare l’amigdala e riportarci in uno stato di risorsa, più lucido e connesso.

Apprendimento, neuroplasticità ed errore

Un tema chiave della leadership oggi è la capacità di apprendere continuamente. Ed è proprio qui che la neuroplasticità – la capacità del cervello di modificarsi e creare nuove connessioni – entra in gioco.

Secondo Venanti, l’apprendimento negli adulti richiede tre ingredienti fondamentali:

  1. Attivazione (epinefrina) – Uno stato di allerta o sfida aiuta il cervello a essere ricettivo.
  2. Focalizzazione (acetilcolina) – L’attenzione va direzionata consapevolmente.
  3. Errore – Gli errori attivano finestre di plasticità: il cervello “si sveglia” per imparare.

Ecco perché creare contesti in cui sbagliare è possibile (e accettato) è fondamentale. Anche se non tutto può essere sbagliato senza conseguenze, definire spazi protetti dove sperimentare e fallire – come una prova interna di public speaking – può attivare meccanismi profondi di apprendimento.

Conclusione: la scienza che ci aiuta a diventare più umani

Le neuroscienze ci offrono una bussola per muoverci meglio nella complessità delle relazioni e dei contesti lavorativi. Comprendere come funziona il nostro cervello ci permette di allenare con consapevolezza qualità troppo spesso considerate “soft”, come l’empatia, l’ascolto, la presenza.

E se è vero che il potere può disabituarci a sentire, allora oggi più che mai serve una leadership che non smetta di farlo. Una leadership che sa stare con l’altro, che sa sbagliare, che sa cambiare. E che, soprattutto, continua ad apprendere.

Perché l’empatia non è solo una qualità personale. È una strategia di sopravvivenza collettiva.